Dialoghi con Leucò – Mnemòsine, o la Memoria

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Ricordanza – Dante Gabriel Rossetti, 1875-1881

MNEMÒSINE: Non ti sei chiesto perché un attimo, simile a tanti del passato, debba farti d’un tratto felice, felice come un dio? Tu guardavi l’ulivo, l’ulivo sul viottolo che hai percorso ogni giorno per anni, e viene il giorno che il fastidio ti lascia, e tu carezzi il vecchio tronco con lo sguardo, quasi fosse un amico ritrovato e ti dicesse proprio la sola parola che il tuo cuore attendeva. Altre volte è l’occhiata di un passante qualunque. Altre volte la pioggia che insiste da giorni. O lo strido strepitoso di un uccello. O una nube che diresti di aver già veduto. Per un attimo il tempo si ferma, e la cosa banale te la senti nel cuore come se il prima e il dopo non esistessero più. Non ti sei chiesto il suo perché?
ESIODO: Tu stessa lo dici. Quell’attimo ha reso la cosa un ricordo, un modello.

[Dialoghi con Leucò – Le Muse, C. Pavese]

Mnemòsine, incarnazione mitica della Memoria, è colta in un dialogo con Esiodo, il primo poeta a cantarla.

Ma che operazione si intende compiere, quando si associa Mnemòsine alla Memoria?
Con più esattezza, a quale memoria Pavese vuol fare riferimento?

Immaginiamoci che il mondo abbia una coscienza. Alla pari di un essere umano, il mondo – inteso come insieme di tutte le cose che compongono la realtà nella quale ci muoviamo – ha una coscienza individuale, è cioè capace di osservare tutto ciò che accade in lui, tutte le esperienze fatte in lui, e di trasformarle in ricordi. Questi ricordi, alla pari di quelli umani, si allungano all’interno di un fenomeno psichico, che comunemente chiamiamo memoria.

Ora, qual è la differenza fra la memoria umana, e la memoria del mondo?

Mentre l’uomo agisce all’interno del mondo, e dunque fa esperienza del mondo interagendo solo sporadicamente con le singole cose che lo popolano, il mondo osserva tutte le cose che accadono al suo interno, e le osserva tutte nello stesso momento e facendone esperienza in maniera costante. Se, ad esempio, un uomo esce di casa e va in panetteria, prima e dopo l’incontro con il panettiere, non ha idea di che cosa il panettiere faccia. Così come l’uomo non fa esperienza del panettiere prima di incontrarlo, allo stesso tempo non continua a farne esperienza quando se ne va al lavoro. Ne deriva che l’uomo si crea un ricordo di quell’incontro con il panettiere, che è basato sull’esclusività, sull’unicità, di quell’esperienza.

Cosa accade invece al nostro mondo cosciente? Il mondo non può sottrarsi alla visione del panettiere. Essendo il panettiere parte del mondo, il mondo continua a farne esperienza, in maniera eterna. Un po’ come se noi passassimo una vita intera ad osservare la nostra mano destra.  Un po’ come se fosse possibile per noi farlo.

Adesso immaginiamoci tutte le volte che passiamo per strada e il nostro sguardo – lo sguardo da umani – non registra le esperienze più banali e ripetitive che facciamo. Ogni qual volta usciamo dal portone di casa nostra e vediamo l’albero che sta in cortile, di certo non ci soffermiamo a osservarlo con cura. Il nostro sguardo si distrae, in qualche modo noi non ci concentriamo.

Può accadere questo al mondo? Naturalmente no, poiché il suo sguardo, piovendo dall’alto, è obbligato a vedere e rivedere in eterno tutto quello che accade sulla sua superficie.

Dunque Mnemòsine, che è la coscienza del Mondo, guarda e riguarda la medesima nube, ascolta e riascolta il cadere della medesima pioggia, coglie e ricoglie l’espressione del medesimo passante. Ha la facoltà di osservare il ripetersi delle cose nella loro staticità, il loro ripresentarsi le une uguali alle altre.

È dunque questo a generare i singoli ricordi che Mnemòsine ha del mondo?

Sorprendentemente no: ha fissare il ricordo, e a far dunque splendere la sua memoria, è l’eccezione nella ripetizione. Una piega diversa in quella nube, un incedere diverso in quella pioggia, un guizzo diverso nel volto di quel passante.

Questo è ciò che la coscienza mortale di Esiodo non potrà mai ottenere: di far emergere le cose del mondo dalla falsa illusione di un loro piatto ripetersi.

[Ho parlato di Memoria anche in questi articoli:
Il paradosso del memorioso
Memoria ed Esperienza: l’una uccide l’altra?]

Dialoghi con Leucò – La psiche di Medea

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Medea – A.F.A. Sandys, 1866-1868

Medea, forse una delle figure mitiche più cantate dalla letteratura e dalla drammaturgia antica – protagonista di una celebre tragedia di Euripide, e di scritti di Seneca – fu amante, madre e parricida.

Innamoratasi al sol sguardo di Giasone – eroe greco – decide di aiutarlo nella conquista del vello d’oro. Facendo uso della propria magia, rende Giasone invincibile e abile a superare qualsiasi impresa. Eeta, padre di Medea nonché re della Colchide, furente con la figlia decide di non concedere all’eroe greco il suo premio.
Allora Medea, sopraffatta dal suo amore per Giasone, decide di rubare il vello d’oro e di fuggire con lui.

Ora, la verità è che Medea si innamorò di Giasone a causa di ripetute frecce scoccate dall’arco di Eros, per volontà di Atena ed Era.
Per questa ragione, Medea crede ciecamente ed acriticamente al proprio amore. Non è un soggetto giocato da un forte sentimento nei confronti di un altro essere umano. Dovremmo invece dire che Medea sia proprio quel sentimento: ella aderisce al proprio amore, non potendo vivere all’infuori della salvaguardia dello stesso. Amore puro, incondizionato, cieco.

La mente di Medea non percepisce sfumature intermedie fra il bianco dell’amore, e il nero della sua negazione. Non può esistere nella sua vita altra missione se non quella di far di tutto per il suo Giasone, di far della propria vita, quella di lui. Tanto che nel momento nel quale Giasone l’abbandonerà, ella non potrà far altro che negare la sua vita con lui, arrivando a uccidere i loro figli.

Pavese fa dire al suo Iasone: Non l’ho mai vista piangere. Medea non piangeva. E sorrise soltanto quel giorno quando disse che mi avrebbe seguito.

[Gli Argonauti – Dialoghi con Leucò]

Questo sorriso è il sintomo di una rassegnazione estatica ed ebete al cieco ideale: Giasone è tutta la mia vita, unico e imprescindibile scopo. Egli è la ragione – potremmo dire la causa – del mio stare al mondo. Negare Giasone, vorrebbe dire negare la mia stessa vita, e dunque distruggere tutto ciò che mi riguarda.
In fondo Medea non piange, proprio perché nella sua mente – a partire dal momento nel quale Giasone le appare alla vista – non esiste dubbio attorno alla sua missione, nulla può incrinare la sua cieca fede: Giasone e la sua salvezza. Lei è felice fintanto che può essere coerente con il proprio convincimento, fintanto che non è costretta a visionare alternative, a stravolgere l’impostazione stessa della propria psiche.

Infatti Giasone rappresenta metaforicamente il dogma centrale della nostra esistenza, quel credo innegabile e imprescindibile sul quale poggia l’intera progressione della nostra vita – il senso stesso, inalienabile e appagante, dello stare al mondo.

Il venir meno di quel fondamento, nega la vita stessa. La fa scomparire.

[Ho parlato di amore anche in questo articolo:
Dialoghi con Leucò – I volti della passione]


Simone Redaelli è uno scrittore freelance presso Culturico e uno YouTuber presso Simone Redaelli

Dialoghi con Leucò – Il Pane e il Vino

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Demeter in Pompeii

Giunge poi quel momento della storia greca, nel quale gli dèi cominciano a intravvedere l’istante in cui saranno dimenticati.

Parlando di Dioniso, abbiamo già capito che egli esiste solo per dare un senso alla vitalità del mondo: le viti, l’uva, i frutti del reale crescono e prosperano, grazie al respiro animatore del dio.

Potremmo dire che l’esistenza degli dèi giustifica il divenire del mondo: l’avanzare apparente delle stagioni, il mutar di colore delle foglie, il ciclo vitale degli animali. Gli dèi come motori degli enti.

Dunque gli uomini cercavano di ingraziarsi gli dèi affinché essi non interrompessero il ricorrere diveniente – ossia ciclico – della natura. L’uomo ha necessità che i campi diano da mietere, che i boschi si riempiano di selvaggina, che i frutti pendano dagli alberi. E tutto questo avviene perché l’uomo si considera mortale, nel senso che la sua esistenza si esaurisce e si compie nella propria fine, e non sopravvive al di là del proprio destino.

L’uomo aspira a compiersi in questo mondo: e per farlo, ha necessità che il respiro delle viti – Dioniso – e il bagliore del grano – Demetra – assicurino il ricorrere dei prodotti di natura ogni anno.

L’asse è dunque il seguente: Natura-Dèi-Uomo.

Che cosa succede però, nel momento nel quale l’uomo intravvede la vita beata, quella oltre la vita mortale?

Non teme più il proprio destino. Non si ritrova più a vivere il destino come quel taglio che lo rescinda dal mondo. La morte diventa invece un tramite per qualcosa d’altro, per una dimensione umana che potremmo definire eterna.

È chiaro però che in questa nuova concezione l’asse che abbiamo precedentemente illustrato viene meno: gli dèi – che essendo gli unici regolatori delle leggi di natura, erano anche gli unici controllori della sorte mortale, carnale degli uomini – vengono inevitabilmente declassati, perdono di potenza, a fronte di un’umanità che può sopravvivere al proprio destino.

Se allora gli dèi, come Dioniso e Demetra, vedono nel futuro degli uomini l’avvento dell’eterno, dell’uomo che sopravvive alla degenerazione della propria carne, come possono loro salvarsi? Come possono gli dèi  sopravvivere nell’immaginario umano?

A questo punto Pavese deve inventarsi un sottile stratagemma narrativo, che però ci consente di intuire come dalla tradizione classica, si sia lentamente passati a quella cristica, attraverso una certa soluzione di continuità. Pavese non decreta una separazione fra la tradizione greca, e quella giudaico-cristiana. Anzi, il nostro scrittore vuol proprio far partorire il Cristo dagli Olimpi.

Di nuovo: gli uomini si inventano gli dèi per giustificare il divenire ciclico del mondo e per potersi assicurare la prosperità delle proprie civiltà mortali qui sulla Terra. Tuttavia, nel momento nel quale l’uomo si convince che vivrà per sempre, il limite della propria mortalità perde di senso, e così anche l’essenzialità dell’operato divino inizia a vacillare. In questo imminente scenario, la Demetra pavesiana suggerisce allora di accelerare i tempi: “Insegnargli [agli uomini] che ci possono eguagliare di là dal dolore e dalla morte. Ma dirglielo noi. Come il grano e la vite discendono all’Ade per nascere, così insegnargli che la morte anche per loro è nuova vita. Dagli questo racconto. Condurli per questo racconto. Insegnargli un destino che s’intrecci col nostro.”

Insomma Pavese ipotizza che siano gli dèi – quelli greci – ad insegnare agli uomini la vita eterna, a credere in quella vita beata. Gli ideatori dell’umano eterno sarebbero appunto stati Dioniso e Demetra: vino e pane, come poi erediterà la formula del corpo e del sangue di Cristo nella tradizione cristiana.

È evidente che nell’espediente narrativo pavesiano già s’intravvede il tramonto dell’epoca olimpica. Per Demetra, l’eterno umano non rappresenterebbe un’ascesa ai cieli, non un accesso ad una nuova immaterica dimensione, bensì vorrebbe dire partecipare al ciclo che ritorna: tramontare nel ciclo che si chiude – morire biologicamente – per poi rinascere nel ciclo che si apre – fare della propria carcassa un fertilizzante o del cibo per avvoltoi. Insomma partecipare in quanto sangue e carne delle viti e del grano: questo sembrerebbe essere il piano di Demetra.

Quelli che poi diventeranno il corpo e il sangue di Cristo, in principio furono le sementi e le viti del mondo. L’uomo non si sarebbe dunque fatto eterno in virtù di un martirio, bensì l’eternità sarebbe stata il dono vile degli dèi agli uomini, affinché gli dèi potessero sopravvivere nei loro cuori.

[Ho parlato di Dioniso, in questo articolo: Dialoghi con Leucò – Che cosa sono gli dèi?]

Dialoghi con Leucò – Che cosa sono gli dèi?

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Bacchus and Ariadne – Antoine-Jean Gros, 1822

Qui in Occidente, abbiamo ben radicata – per lo meno dall’avvento del Cristianesimo – questa concezione del Dio come dell’uomo barbuto.
Il Dio come umanizzazione saggia dell’uomo. D’altronde il Dio è visto come partoriente primordiale del genere umano, e dunque capostipite universale dei senzienti.

Dunque prima viene il Dio, e poi l’Uomo. Questo è l’ordine gerarchico, quello appunto del creatore e del creato.
Ma gli Dèi sono davvero questo?

Protagoniste in dialogo de La vigna pavesiana, sono Leucotea e Ariadne. Proprio quell’Ariadne – o Arianna – della quale abbiam già parlato, abbandonata dall’Uomo che si fece Dio uccidendo il Mostro, ossia Teseo.
Ariadne sta aspettando l’arrivo di Dioniso – dio della risata – il quale finalmente la porterà in salvo, qualsiasi cosa questo comporti.

Ora, chi è Dioniso?

Tutti quanti ce lo figuriamo come un goliardico ubriacone, abbandonato su qualche tavolo d’osteria e intento a cianciare di cose rumorose ma incomprensibili. Magari con una bella corona fatta di rami di viti, e l’uva a penzoloni. Cioè il nostro retaggio cristiano ci obbliga a ricondurre sempre e comunque il Dio all’Uomo. Presupponendo poi che quel dio umanizzato sia generatore di umanità.

Ecco invece come Leucotea lo descrive ad Ariadne: Tu sei mai stata in un vigneto in costa a un colle lungo il mare, nell’ora lenta che la terra dà il suo odore? Un odore rasposo e tenace, tra di fico e di pino? Quando l’uva matura, e l’aria pesa di mosto? O hai mai guardato un melograno, frutto e fiore? Qui regna Dioniso, e nel fresco dell’edera, nei pineti e sulle aie. E quando Ariadne protesta, chiedendo se non si possa davvero sfuggire allo sguardo degli dèi, Leucotea risponde: Cara mia, ma gli dèi sono il luogo, sono la solitudine, sono il tempo che passa. Verrà Dioniso, e ti parrà esser rapita da un gran vento, come quei turbini che passano sulle aie e nei vigneti.

Dunque nella concezione di Leucò, il Dio non è l’Umano più perfetto. Dovremmo dire che gli dèi non hanno proprio nulla a che fare con l’umanità, ma piuttosto con il respiro del mondo.

Laddove il mondo lamenta – uno sbatter di foglie fra i rami, un bacio lento del sole, un ritorno dell’acque – lì, il Dio passa. Potremmo dire che gli dèi sono gli animatori del mondo. Sono il passo rumoroso della vita che muove il mondo. Dunque gli dèi non stanno gerarchicamente sopra le cose del mondo, e di fatto non le creano, non le fanno esistere. È anzi vero il contrario.

E infatti Leucotea aggiunge: Gli dèi durano finché durano le cose che li fanno.

A dire che gli dèi stanno dentro le cose. Non sono la ragione per la quale le cose esistono.

Al giorno d’oggi un dio come Dioniso è stato soppiantato dalle leggi della fisica, che ci spiegano il motivo per il quale anche il mondo sembra esser “vivo” come gli uomini vivono. Ma un tempo Dioniso era la Scienza: la spiegazione più logica al mistero dell’animosità del mondo.

Come può una realtà inanimata, animarsi? Al passaggio ridanciano di Dioniso persino la vigna respira.

[Ho parlato di Arianna e di Teseo in questo articolo: Dialoghi con Leucò – La Persistenza del Mostro]

Dialoghi con Leucò – Quando la Morte vuol farsi Vita

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The Death of Hippolytus – Lourens Alma Tadema, 1860

Vi ricordate di quando Orfeo rinunciò all’ombra morta di Euridice, per tornare lassù in superficie, alla vita dei vivi?

Protagonista del mito di oggi è Virbio, che per alcuni – fra i quali Pavese – fu Ippolito, figlio di Teseo, re di Atene.
Giovane dalla straordinaria bellezza e dall’immacolata castità, ebbe sempre una predilezione per Diana (Artemide per i greci). Quando Venere (Afrodite per i greci) gli causò la morte, Diana lo resuscitò col nome di Virbio e, portatolo di Italia, lo fece regnare al suo fianco.

Che cosa accade dunque, quando la morte vuol giocare ad esser vita?

Accade che Virbio, personificazione della morte sulla Terra, non può far altro che partecipare di un mondo vivo, ma solo osservandolo asetticamente dall’esterno. “Se io non ci fossi” dice Virbio a Diana “questa terra sarebbe ugualmente com’è. Pare un paese immaginato, veduto di là dalle nubi.”

Un po’ come quando si desidererebbe tornare indietro ai momenti che furono, per osservarci vivere dal di fuori, muti spettatori di un tempo che va nell’altra direzione, quella della vita che evolve, che si trasforma.

È insomma chiara la nuova posizione che l’Ippolito resuscitato assume: egli non è più il vecchio mortale che tocca la terra e calpesta le foglie, non più il cacciatore dei boschi alle prese con l’udito fine della selvaggina. Ora il mondo gli è lontano, intoccabile. Egli lo può scorgere solo dalla lontananza del Monte, da quella posizione siderale che è propria del Dio che troneggia dall’alto.

Nella figura di Virbio emerge bene la differenza fra il morto che resuscita e il ragazzo che ogni mattina si desta e torna al gioco: entrambi vivono l’infinito presente, sottratti al domani come se il tempo non dovesse mai passare.
Eppure il fanciullo – quello che Ippolito fu – toccava la vita, esisteva nel mondo. Ora Virbio sa che “La [mia] terra è lontana come le nuvole lassù. Ecco, passo fra i tronchi e le cose come fossi una nuvola.”

Il resuscitato è un’ombra che cammina fra le cose vive, non vista. La sua essenza è intoccata dal mondo: non percepibile, inafferrabile dai sensi propri della materialità del reale, quasi fumosa, evanescente.

Ora la domanda è: perché il resuscitato non può tornare ad essere il mortale che era? Un mortale dotato di un corpo che sottostìa alle leggi dei sensi, al battito acceso della carne?

Ce lo dice Diana, rivelando l’essenza quasi ingenua del Dio per quella che è, incapace di vivere la vita umana dal di dentro, e potendola solo osservare – e dunque ricreare – dal di fuori: “C’è un divino sapore nel sangue versato. Quante volte ti ho visto rovesciare il capriolo o la lupa, e tagliargli la gola e tuffarci le mani. Mi piacevi per questo. Ma l’altro sangue, il sangue vostro, quel che vi gonfia le vene e accende gli occhi, non lo conosco così bene. So che è per voi vita e destino.”

Eccoci rivelato il limite del Dio: non sapere come all’umano si torcano i visceri, cosa voglia dire sentire i palpiti accelerati del cuore. Diana è in fondo l’artista magistrale al quale manchi il sapore dell’anima, e che non sappia comprendere come il volume della vita si gonfi da dentro.
Il corpo dell’uomo non è un burattino inerte riempito di un po’ di vivacità. Noi respiriamo da dentro: è l’attività della nostra soggettivazione ad articolare i gesti, ad emettere suoni.

Dunque Virbio – l’Ippolito resuscitato – si ritrova imprigionato in un corpo che non ribolle, dove la biologia è ferma, e non risuona più al riverberare del mondo.

Il problema è che l’anima di Ippolito c’è ancora: disperatamente ancorata al fanciullo che fu, ripensa al proprio vissuto di mortale.

[Ho parlato di Orfeo ed Euridice in questo articolo: Dialoghi con Leucò – Eros oppure Vita?
Ho parlato di Dialoghi con Leucò, per la prima volta in questo articolo: 29. I mortali – Cesare Pavese]

Dialoghi con Leucò – I volti della passione

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Sapho, Phaon et l’Amour – Jacques-Louis David, 1809 (Musée de l’Ermitage)

Protagoniste del dialogo Schiuma d’onda sono tre donne, le quali rappresentano simbolicamente le tre possibili incarnazioni della passione amorosa.

Saffo, celebre poetessa greca, secondo una leggenda si sarebbe gettata in mare a causa di un insanabile amore non corrisposto per il barcaiolo Faone.
Potremmo dire che con Saffo siamo di fronte a una passione irreggimentata, una passione assoluta e ingovernabile. Non sapendo dominare la violenza del tumulto, Saffo è giocata dal tumulto stesso. Il tumulto della passione la governa, avendo pieno controllo sulla prassi della sua vita.
Visto che Saffo non ha potere sulla propria passione (e dunque sulla propria vita) – ma è la passione ad avere pieno potere su di lei – per liberarsene è costretta all’atto estremo. Siamo quindi di fronte ad un’incarnazione sadicamente pura di una passione che vuole solo se stessa, e che divorando se stessa si spinge fino all’uccisione dell’ospite.

Britomarti, ninfa cretese, fu invece l’amante preferita di Minosse, re di Creta. Ad un certo punto, volendogli sfuggire vagò per valli e per monti, fino a gettarsi in mare ed essere miracolosamente salvata da una rete di pescatori.
In Britomarti, la passione assume il tono della fuga. Abbracciare la propria passione vorrebbe dire arrestare la propria vita – vorrebbe dire restare – ossia sganciare la direzione del proprio destino da quel continuo mutamento in perenne balia della sorte.

Dice Britomarti a Saffo: Sorridere è vivere come un’onda o una foglia, accettando la sorte. È morire a una forma e rinascere a un’altra. È accettare, accettare, se stesse e il destino.

Insomma Britomarti accetta il destino come quel movimento naturale secondo il quale gli enti del mondo non sono che passaggi di stato. L’uomo è solo una transizione effimera di una parte di mondo, che ad un certo punto si corrompe per divenire qualcosa d’altro.
Questo pensa Britomarti: se tanto devo partecipare a un’inevitabile dissoluzione, se tanto il mio essere è solo un burattino nelle mani miscelanti della natura, che cosa vale provare a restare nella verità della passione? Tanto meglio fuggire dai monti al mare, lasciandosi placidamente trascinare da questa volontà di naturale transizione.

Quindi da un lato abbiamo il sadismo del godimento, un godimento fine a se stesso sul quale l’uomo non ha alcuna forma di controllo, e dall’altro abbiamo la rinuncia volontaria al godimento, in virtù di una “naturale ed inevitabile” sottomissione al divenire mutevole della natura.

Esistono allora alternative?

E qui veramente viene fuori il genio di Pavese, il quale riesce a rivalutare una delle figure mitiche più bistrattate dell’epica greca: Elena di Troia.

Nell’immaginario comune, Elena è considerata la tentatrice. Colei per la quale si fece guerra, colei che fu causa di conflitti e di stragi senza precedenti. Elena come sinonimo di implacabile contesa.

Eppure nessuno mai si chiede per quale ragione Elena fu la vita e la morte. Per quale ragione si combatté e si morì per lei.

In realtà, tutto il mondo attorno a Elena crolla poiché ella fu sempre uguale a se stessa.

Così la descrive Saffo: Non fuggì, questo è certo. Bastava a se stessa. Non si chiese quale fosse il suo destino. Chi volle, e fu forte abbastanza, la prese con sé. Seguì a dieci anni un eroe, la ritolsero a lui, la sposarono a un altro, anche questo la perse, se la contesero oltre mare in molti, la riprese il secondo, visse in pace con lui, fu sepolta, e nell’Ade conobbe altri ancora. Non mentì con nessuno, non sorrise a nessuno. Forse fu felice.

Insomma, Elena è colei che accetta il mutamento nella passione. Non si lascia dominare da un cieco tumulto (Saffo), né da un destino tiranno (Britomarti).

Elena asseconda il movimento della sua passione, il che significa mutare amante quando il desiderio muta, significa evitare di mentire e di sostenere finti sorrisi quando la passione svanisce. Elena non mentì a nessuno e non sorrise a nessuno. A dire: Elena fu la più coerente incarnazione della tensione passionale.

È chiaro che stare nella verità della passione significa mandare a ferro e a fuoco il mondo, perché inevitabilmente vuol dire obbligare il mondo a piegarsi alla nostra legge.

[Ho parlato per la prima volta dei Dialoghi con Leucò, in questo articolo: 29. I mortali – Cesare Pavese]


Simone Redaelli è uno scrittore freelance presso Culturico e uno YouTuber presso Simone Redaelli

Dialoghi con Leucò – La legge

ISSIONE: E che cosa è mutato, Nefele, sui monti?
LA NUBE: Nè il sole nè l’acqua, Issione. La sorte dell’uomo, è mutata. Ci sono dei mostri. Un limite è posto a voi uomini. L’acqua, il vento, la rupe e la nuvola non son più cosa vostra, non potete più stringerli a voi generando e vivendo. Altre mani ormai tengono il mondo. C’è una legge, Issione.
ISSIONE: Quale legge?
LA NUBE: Già lo sai. La sorte, il limite…

[Dialoghi con Leucò – C. Pavese]

L’apertura dei Dialoghi getta l’uomo – protagonista Issione – nell’incubo del risveglio. La Nube, antico simbolo dei riti propiziatori della pioggia, strappa l’uomo dall’indeterminatezza, da quella primordiale miscibilità del mondo naturale e lo pone innanzi alla legge.

“C’è una legge Issione, cui bisogna ubbidire”.

Questa è la legge della presa di coscienza dell’uomo sul mondo. Nel buio della notte dei tempi, ad un certo punto il re sacro Issione – solito unirsi alla Nube per propiziare la pioggia – si sveglia estraneo a quella natura che lo ha generato. La natura è ora uno sfondo, sul quale l’uomo si staglia.

Per Pavese questo avvento dell’autocoscienza è un trauma: esso obbliga l’uomo a nominare le cose del mondo, a renderle discrete, a separarle le une dalle altre.

A questo richiamo Issione vuol però sottrarsi.

E qui si nota l’ossessione di Pavese per l’età infantile, della quale abbiamo già ampiamente parlato. Issione è quel bimbo che gioca ai tramonti, che si mischia alle ninfe delle polle e dei monti, che corre con i Centauri. Ma la voce della madre – la Nube – gli insegna che i Centauri non sono compagni. Anzi: che altro non sono se non mostri.

In prima battuta, questo ritorno sulle fasi della vita ci permette di afferrare un Issione (un Pavese dunque) infantile, giocoso, cieco alla razionalità propria del mondo adulto. E ci concede poi di osservare una madre intenta nell’atto di indicare col dito indice le cose del mondo, di fermarle nella parola, di nominarle.

Questo è il vero trauma: la parola.

La venuta della legge è allora la venuta della parola, che assieme alla consapevolezza della vita trascina con sé anche il lontano baluginare della morte.
La morte esiste perché siamo consapevoli della vita. E la vita è consapevole perché esiste la parola. Ma allora il bambino (o l’uomo della notte dei tempi) non è affatto vivo: potremmo dire che il bambino non vive fintanto che non ha coscienza di sé, fintanto che non nomina la vita. Solo a quel punto egli comincia a trascorrere, a vivere la vita.

La Nube dice a Issione: “Tu sei tutto nel gesto che fai”. A ricordargli: sei l’eterno e giocoso presente, cieco al passato e al futuro.
Per questa ragione, i bambini non vivono un divenire, ma sono eternamente.

Il divenire dell’adulto sarebbe poi destinato ad estinguersi nella negazione della vita: l’uomo è mortale.

Al mortale è dunque concesso – perlomeno – di essere padrone del proprio destino?

Purtroppo la legge della parola sembra incarnarsi in quella divina. La negazione della vita non si estingue nell’atto della morte, ma per volere degli dèi potrebbe persistere in “quella morte ch’è un amaro sapore che dura e si sente.” Dannazione eterna.

Vediamo allora come il destino dell’uomo venga strappato dalla cecità ciclica della natura per essere gettato con forza fra le spire del discorso divino.
Il Dio ha l’ultima parola sulla sorte mortale.

Ed è proprio da qui che prende le mosse l’inconciliabilità fra mortali e immortali e l’intero discorso pavesiano sull’affrancamento dell’uomo greco.

[Ho parlato del valore dell’infanzia per Pavese, in questo articolo: 1. Ripercorrere i propri miti – Cesare Pavese

Ho parlato di Dialoghi con Leucò anche in questo articolo: 29. I mortali – Cesare Pavese]


Simone Redaelli è uno scrittore freelance presso Culturico e uno YouTuber presso Simone Redaelli

La natura innocente – Tiche

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Fortuna – T. Kuntze, 1754 (Muzeum Narodowe w Warszawie)

Responsabile della sorte degli uomini è la dea greca Tiche. Dal greco τυγχάνω, che significa appunto “venire in sorte, ossia accadere”, è il corrispettivo della dea romana Fortuna.

Tuttavia, il significato di Tiche sembrerebbe maggiormente avvicinarsi a quello delle personificazioni della Legge o Giustizia naturale, il cui senso bene si esprime nel comportamento stesso della dea: ella non è responsabile delle proprie decisioni, tanto che ad alcuni mortali si ritrova a concedere notevoli doni, mentre ad altri arriva addirittura a negare il minimo indispensabile.
Per dimostrare quanto la sorte sia incerta, Tiche si aggira facendo rimbalzare una palla qua e là.

Tale comportamento, agli occhi razionali di un essere umano, potrebbe apparire malvagio. Distribuire i doni in maniera iniqua, senza preoccuparsi che ciascun mortale riceva il necessario per il proprio sostentamento, potrebbe apparire un atteggiamento immorale.
Ma Tiche appartiene ad un altro sistema di decisioni, poiché è appunto forgiata secondo altre regole.

Siamo forse di fronte al concetto di natura innocente: tutto ciò che la Natura compie accade secondo leggi che non sono interpretabili a partire dagli schemi di umana convivenza. Principi quali la solidarietà, l’uguaglianza, il sostegno reciproco, costituiscono soltanto la nostra cultura (e in maniera meno complessa, anche le dinamiche intraspecifiche di altre creature animali sulla Terra).

Al contrario, la Natura dispone delle vite che ha sottomano secondo principi assurdi agli occhi dell’umana gente, secondo leggi incomprensibili.

Potremmo allora definire la Natura come “Principio universale della permanenza dei viventi sul pianeta”, dove ciascuna decisione presa attorno alla vita o alla morte del singolo, si ripercuote sull’economia dell’intero ecosistema terrestre.

Al di là del mito, sappiamo bene come la sorte dei singoli mortali possa risultare davvero imprevedibile. Volendo mantenere un equilibrio fra le parti, se la Natura fosse dotata di pensiero e dovesse decidere con razionalità in quale direzione dirigere contemporaneamente tutte le vite presenti sulla Terra, gli effetti di una specifica scelta ricadrebbero inevitabilmente su quelli di tutte le altre.

In buona sostanza, la sorte del singolo sfugge persino al controllo della Natura (e dunque di Tiche, nel mito), risultando irrintracciabile fintanto che non accade.

Maggiore è l’ampiezza di una decisione presa, più elevato è il numero di tasselli che si muovono all’interno del sistema, prima che si ritorni ad un nuovo punto d’equilibrio. E durante il tragitto, la sorte dei singoli tasselli può ripetutamente mutare, il loro significato può essere alterato innumerevoli volte, insomma il loro scopo finale dev’essere in continuo pericolo di cedimento.

In questo senso, Tiche ci ricorda come il nostro ruolo di individui nel mondo, sia continuamente mosso da cause più grandi di noi, cause sulle quali fluttuiamo. Un po’ come se all’improvviso ci rendessimo conto che l’Australia è in realtà un enorme rettile in letargo geologico.

Ci sono cause all’interno delle quali siamo strutturalmente chiamati a sostare, cause che come enormi piattaforme ci conducono con morbidezza al prossimo punto, ci lasciano fare, magari sospinti da uno sbuffo di vento.

E lasciatici in pace a sufficienza per convincerci padroni di noi stessi, tornano poi a riprenderci, per portarci proprio là dove speravamo di arrivare.

[Per seguire l’itinerario mitico, rifarsi alla sezione “La dimensione mitica dell’esistenza”.]

I luoghi dell’Oltretomba

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Discesa di Enea nei campi elisi – Dosso Dossi, 1520 (National Gallery of Canada)

Parlando delle tre Moire (o Parche), abbiamo già introdotto il concetto mitologico di morte.

Una volta stabilito che il filo della vita di un uomo greco debba essere reciso, l’atto del trapasso garantisce l’accesso ai luoghi dell’Oltretomba.

Le anime dei defunti approdano così alle porte del Tartaro, portando con sé un obolo, modesto pegno in denaro atto a pagare i servigi del traghettatore Acheronte. Il Tartaro si estende oltre lo Stige, il fiume dell’odio. Esso è alimentato da diversi affluenti, chiari simboli delle pene che normalmente accompagnano il trapasso: Acheronte (fiume dei guai) e Cocito (fiume del lamento), per non parlare di Lete (oblio), di Averno e di Flegetonte (fiume del fuoco, forse in onore dell’atto di cremazione al quale i defunti erano in genere sottoposti).

L’Oltretomba consiste poi in tre regioni, alle quali sono alternativamente destinati i defunti sulla base della condotta che tennero in vita.

Alla Prateria degli Asfodeli sono destinati coloro i quali non furono né empi né illuminati. E a questa dimensione fa chiaro riferimento il girone dantesco degli Ignavi, anime che in buona sostanza decisero di condurre un’esistenza nel continuo rifiuto di prendere una decisione.
Interessante notare come le anime greche destinate a questo luogo, siano condannate a vagare senza meta: come in vita decisero di non scegliere fra una condotta virtuosa oppure malvagia, non dotandosi cioè di uno scopo realizzativo da perseguire, così sono ora destinate per l’eternità a non trovare un definitivo compimento al loro errare.
L’asfodelo è in realtà una pianta dal cereo fiore, che senza dubbio rimanda al pallore cadaverico. Normalmente coltivata attorno alle tombe dei morti, forse si credeva che i defunti potessero cibarsi delle sue radici.

Le anime beate sono invece destinate all’Elisio (anche ricordato come Campi Elisi). Radura sulla quale non calano mai le tenebre, Omero la descrive come un luogo nel quale “è felicissima la vita per gli uomini, non c’è tempesta di neve, né rigido inverno né pioggia, ma sempre l’Oceano manda soffi di Zefiro che spira sonoro e rianima gli uomini” (Odissea, libro IV). Ancora una volta, quest’immagine richiama l’atmosfera che Dante incontra alle soglie del Paradiso Terrestre, dove “Un’aura dolce, sanza mutamento avere in sé” (Purgatorio, Canto XXVIII) accarezza la fronte del poeta. Il tocco dell’eterna beatitudine è proprio dato dall’immutabile spirare del vento, che permane nelle forme di un respiro vitale. Quasi che il luogo in sé sia in grado di racchiudere una vitalità che perdura.

Infine, destinate agli ambienti punitivi del Tartaro sono le anime dei malvagi.

Questa scansione è ovviamente da considerarsi approssimativa.

Nell’antica Grecia, le credenze attorno al destino degli uomini oltre la morte furono  molteplici e variegate. Infatti, secondo alcune la reincarnazione era possibile, secondo altre le anime mutavano in venti fertilizzanti, secondo altre ancora si conservavano addirittura come ombre laddove la luce del sole si era dimostrata di non poterle raggiungere.

Simone

[Ho parlato delle Moire in questo articolo: L’interruzione – Le Moire]

Il signore dei cavalli – Posidone

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Neptune and Amphitrite – Jacob de Gheyn II (late 1500s)

Avevamo lasciato le nostre imprese mitiche al momento della detronizzazione di Crono.

Una volta deposto il padre, i tre figli maschi Zeus, Ade e Posidone (Nettuno per la mitologia romana) devono spartirsi il mondo. Affidando alla sorte questa ripartizione, a Zeus toccò il cielo, ad Ade il sottosuolo (e l’oltretomba), mentre a Posidone fu assegnato il mare. La terra rimase invece luogo di dominio comune.

Un primo aspetto interessante da notare è come il temperamento di una divinità greca sia sempre descritto per analogie: le volontà, le inclinazioni, persino i sentimenti di Posidone sono il mare. Mare che si scaglia contro la scogliera, mare che spuma e ribolle, mare scosso da incessanti burrasche.

E infatti, il carattere del nostro Posidone è cupo e tormentato come il mare. Come ogni divinità che si rispetti, per prima cosa egli cerca di assicurarsi una progenie. Prende allora in moglie una delle cinquanta sirene Nereidi, di nome Anfitrite, dalla quale ottiene tre figli. I nomi stessi di Nereide (“l’umida”) e  di Anfitrite (“il mare”) richiamano proprietà tipiche delle acque oceaniche, le quali avvolgono la terra e sottostanno al peso del cielo.

Ma ancora più singolare può apparire la figura di Posidone quando lo si definisce signore dei cavalli: qual è il rapporto fra il cavallo e l’acqua?

L’impronta lasciata da questo animale sacro è a forma di quarto di luna. E più volte abbiamo ribadito come i greci arcaici riconoscessero all’astro lunare il controllo di tutte le acque. Questa è la ragione per la quale Pegaso è associato allo sgorgare delle sorgenti, e simbolicamente invocato nei riti propiziatori della pioggia.
Leggende dunque narrano di come le stalle subacquee di Posidone ospitassero bianchi cavalli capaci di domare le impervie tempeste.

Oltre ai cavalli, animali e mostri marini dimorano nel regno di Posidone: fra tutti, la personificazione di Delfino in uno dei messaggeri di Posidone assume un ruolo sentimentale. Infatti Delfino fu proprio spedito da Anfitrite per convincerla a sposare il dio del mare, incontro che ebbe successo.

Tutt’oggi i delfini, nell’immaginario comune, simboleggiano la personificazione marina dell’amore: generalmente salgono in superficie a far festa una volta cessata la burrasca.

Nel complesso, le attività e le imprese di Posidone possono essere ricondotte con facilità al carattere indomabile del mare. Infatti il dio tentò la conquista di numerose terre emerse, ingaggiando litigi e scontri principalmente con la dea Atena.

E qui riemergono ancora una volta i dissidi politici fra matriarcato e patriarcato.
Proprio ad Atene, città sacra alla dea Atena, per placare la furia di Posidone le donne furono costrette a rinunciare al diritto di voto, mentre gli uomini al cognome delle loro madri.

A causa del suo fare litigioso e del suo temperamento spigoloso, pare che Posidone fosse inviso agli altri déi olimpici.

Simone

[Ho parlato di Crono detronizzato in questo articolo: Osservatorio etimologico: Panico, Terrore e Angoscia]