
EDIPO: Ma allora gli dèi che ci fanno?
TIRESIA: Il mondo è più vecchio di loro. Già riempiva lo spazio e sanguinava, godeva, era l’unico dio – quando il tempo non era ancora nato. Le cose stesse, regnavano allora. Accadevano cose – adesso attraverso gli dèi tutto è fatto parole, illusioni, minaccia. Ma gli dèi posson dare fastidio, accostare o scostare le cose. Non toccarle, non mutarle. Sono venuti troppo tardi.
[I ciechi, da Dialoghi con Leucò – C. Pavese]
Mai come in questo dialogo il linguaggio di Pavese si fa oscuro. Ma è proprio nell’oscurità che ci si deve lasciar trascinare attraverso piccole suggestioni, per potersi poi permettere di accedere ad una dimensione conoscitiva più profonda. D’altronde, lo stesso Pavese getta sempre questi dialoghi in una sfera oltre-razionale, lasciando intendere come la ragione non sia sempre la via più efficace per andare a fondo del reale.
Cuore del racconto è l’indovino Tiresia, chiamato in causa da una disputa fra Zeus ed Era: nel mito, le due divinità si chiedevano chi, fra l’uomo e la donna, godesse di più nell’atto sessuale. Quando Tiresia diede ragione a Zeus, con estrema sportività Era gli crepò gli occhi. Dunque Zeus – per una volta riconoscente – diede a Tiresia il dono della veggenza e gli allungò la vita di numerose generazioni.
Una prima domanda da porsi è la seguente: perché gli déi chiesero proprio a Tiresia del godimento nel sesso?
Come Tiresia racconta a Edipo nel dialogo pavesiano, un giorno gli accadde di cogliere una coppia di serpi nell’atto di riprodursi su una roccia. Disgustato dalla visione, toccò gli animali per separarli e fu subito tramutato in donna. Così visse per numerosi anni nel godimento del corpo femminile, per tornare solo successivamente in quello maschile.
In seguito a tali esperienze di trasmutazione dei corpi, Tiresia seppe ogni cosa del sesso.
Come detto in apertura, l’interpretazione appare complessa. Eppure il senso di questo dialogo va ancora una volta ritrovato nella contrapposizione fra “mondo pre-verbale” e “mondo verbale”.
Laddove gli déi costituiscono l’archetipo del mondo verbale – il famoso Verbo piovuto dall’Alto del quale abbiamo già parlato altrove –, la roccia rappresenta l’archetipo del mondo pre-verbale. Come Tiresia ricorda, la roccia fu la forza del sesso, la sua ubiquità e onnipresenza sotto tutte le forme e i mutamenti. La roccia fu insomma il primo giaciglio nel quale si compirono sesso e sangue, e tuttora continua ad essere quella matrice sulla quale tutto posa, si agita e si riproduce senza scandalo alcuno. Questo è importante: la roccia è quel luogo primordiale che ospitò il sesso per quello che è, senza pudori e disgusti propri del Verbo.
Pavese ci invita ancora una volta a sbarazzarci dello strumento verbale per interpretare il mondo, spingendoci invece a partire sempre dal punto di vista del mondo stesso: un universo in principio cieco, ma che ha sempre ospitato – nella forma della roccia come giaciglio primordiale – tutto ciò che noi umani, tra l’altro giunti sulla Terra solo recentemente, abbiamo poi deciso di nominare impuro e indegno.
Tiresia ci vuol dire: ascoltate la terra – come d’altronde gli animali fanno – che ha molti più anni persino degli déi.
Questo è un primo vero scacco che Pavese riesce a tirare al mondo Olimpico (e dunque al mondo della Parola). Tanto che, l’accecamento di Tiresia rappresenta una nuova possibilità di riavvicinamento alla realtà della roccia, del sesso e delle serpi. Infatti dice a Edipo: Mi pare di vivere fuori del tempo, di essere sempre vissuto, e non credo più ai giorni.
Con Tiresia, l’uomo ritorna finalmente a sanguinare e a godere fuor di pudore.
[Ho parlato del Verbo in questo articolo: Osservatorio etimologico: Fato o Destino?
Ho parlato per la prima volta dei Dialoghi con Leucò in questo articolo: 29. I mortali – Cesare Pavese]